Viaggi, Il gusto della lentezza

è difficile arrendersi alla lentezza
eppure ci provo
quando il suono cala con le sue armonie discendenti tra i chiaroscuri dell'anima
quando le parole danno pieno significato
al ritmo del respiro del cammino
amo la lentezza perché essa racchiude suoni e parole
latitudini corporali e geografie dell'anima
lentezza è tempo
accorgersi del tempo lentezza è musica
è il rintocco delle campane che risuonano a festa nei giorni ordinari della liturgia laica
quel fado misterioso che scova i quattro quarti del battito moderno
del cuore di questo mondo che ha i tempi pari di una domanda e una risposta
mai un dubbio un limite
per questo adoro i tempi dispari i tempi della lentezza
le note che escono dai violini dell'est zingaro dagli ottoni macedoni dai legni maghrebini
dalle ance mediterranee dal duduk armeno dal canto armonico indiano
lentezza è viaggio
il viaggio al di là delle colonne d'Ercole e il viaggio attorno alla propria stanza
il viaggio dell'esiliato e del clandestino
tornare nomadi senza muovere un passo dalla propria città
lentezza è pensare meridiano
attorno al sud e ai "sud" del mondo
pensieri orizzontali abbracci che uniscano est e ovest sabbia e cielo terra e mare
chi crede nella lentezza è allenato a costruire ponti
mi ostino a credere a questa lentezza
sto in attesa
un giorno o l'altro arriverà

A tavola con Dio, Erri De Luca

Al termine del pasto la benedizione ebraica ringrazia dicendo: «Perché abbiamo mangiato da ciò che è suo». Per il credente ogni porzione è manna sapendo che di sua proprietà è il suolo che fa crescere il cerale, non sua è l’acqua di cielo che l’irriga, non suo il sole che attira la spiga verso l’alto e la riempie di chicchi rivolti all’insù, come un’offerta.
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano»: questa preghiera è anche un ordine del giorno. Senza il rifornimento garantito dal dispensatore non si sostiene vita. Si è tutti ebrei ammassati nel deserto dentro una libertà bisognosa di tutto. La manna, come il pane quotidiano proviene, come dice la benedizione, «da ciò che è suo». Dalla condizione di invitati e non di padroni di casa discende il rapporto della persona di fede con il nutrimento.
Le vetrine luccicanti, la somma di denaro in tasca, fanno dimenticare l’origine del cibo. Ci si crede proprietari grazie a un atto di acquisto, a uno scontrino. Ma è solo l’ultimo gradino, il più basso, di una catena di produzione avviata dagli elementi base di acqua, aria, terra, fuoco. Non ne siamo gli eredi ma gli ultimi usufruttuari di un prestito sempre revocabile e spesso revocato.
Questa è la tavola col cibo del mondo. La specie umana, per quanto numerosa, non ne mancherebbe. La fame è un’offesa ingiustificata.

A tavola con Dio, "L'amore è un piatto"

L’orto è una grande metafora della vita spirituale, l’hortus conclusus, difeso appunto da una recinzione: luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione. «Ho cominciato a tenere l’orto da ragazzo e da allora non sono mai riuscito a vivere senza accudire un orto – scrive Enzo in un recente articolo per La Stampa: arrivato a Bose per iniziare una vita monastica, ho subito avviato un orto, che ora altri conducono, ricavandone frutti meravigliosi in ogni stagione, e anche oggi continuo a tenere un piccolo orto vicino alla mia cella, interamente dedicato alle erbe aromatiche: prezzemolo, basilico, boraggine, erba cipollina, menta, timo, maggiorana, aglio. Non riuscirei a vivere senza questo orto che non solo dà gusto ai cibi, ma mi insaporisce l’anima. Del resto, continuo ad andare sovente nell’orto lavorato dai fratelli e dalle sorelle, perché non trovo soddisfazione più grande del mangiare i pomodori raccolti dalla pianta, dell’accarezzare i peperoni carnosi, il “cuneo” e il “quadrato d’Asti”, dello strappare uno spicchio d’aglio per mangiarmi, fattasi notte, nella mia cella, una “soma” di pane, olio buono, sale e aglio... Mi piace pensare che di là, nel paradiso che non a caso ha il nome di “giardino”, ci sono tanti orti che mi aspettano».

A tavola con Dio, "Meno salmi, più salami"

Allora, se per questa ricerca della felicità perduta e della lentezza, il passaggio obbligato sono le forche caudine del meno salmi, più salami, si passi pure. Meno salmi, più salami è la ricerca di un sapore (e sapere) diverso. Lontani mille miglia dalla «follia del ventre» di Gregorio Magno o «l’ingordigia del ventre» di Giovanni Cassiano, veri fustigatori medievali, che ci hanno descritto come la gola, ahimé, scivoli inevitabilmente nella sciocca allegria, nella scurrilità, nelle sconcezze, nella verbosità, nell’offuscamento dei sensi, nell’ubriachezza. Qui c’è altro. C’è sentore di aromi, godimento di odori. E lode al Signore. Cucina di porto, zuppe di montagna, spezie delle terre natie, buon rosso vendemmiato alla vecchia maniera, con i piedi. In questa mano tesa che l’uomo alza verso il cielo in cerca di un regno terrestre dove risplendano le bellezze del paradiso, noi troviamo la nostra lentezza.
Meno nouvelle cousin dei salotti buoni, più taverne popolari. Meno vino supervalutato, più mosto dei contadini. Meno pani inghirlandati, più bruschette. Meno brodetti con pastina sciapa che ancora qualche convento si appresta  a servire a qualche comunità parrocchiale sventurata, più arrosti veri. Meno salse aromatizzate, più sughi rossi. Meno cous cous al curry, più aglio e cipolla. Meno aceto balsamico, più aceto di vino. Meno già, e più non ancora. Meno acqua, più vino. Meno gregoriano, più alleluja. Meno Dov’è carità e amore, più gospel. Meno negotium, più otium. Insomma, meno tristezza, più sentimento. Meno fatti, più memoria. A tavola, di domenica. Il giorno della festa e del racconto.

A tavola con Dio, "Dalle nozze di Cana al vino della pace"

A Cormons, nel Friuli generoso e ospitale che fa della sua terra un gesto d’amore, si coltiva da qualche anno una bevanda speciale, il Vino della Pace. È prodotto nella zona del Collio, una delle migliori per la viticoltura in Italia, con oltre 450 varietà di vitigni provenienti da tutte le zone viticole del mondo. Alla vendemmia partecipano ragazzi provenienti dai cinque continenti, e il vino che viene prodotto è delizioso. Le sue bottiglie, impreziosite da etichette d’autore dipinte da artisti di fama internazionale, vengono ogni anno inviate ai capi di Stato di tutta la Terra. Almeno davanti al vino, siamo tutti uguali. Sempre lì si produce il Vino degli Angeli, una vendemmia tardiva di uve bianche adatta alla meditazione, alla lentezza del vivere, all’armonia di persone che si siedono a tavola e parlano. Per chi ha un po’ di retaggio di cultura biblica il vino, che dà allegria e voglia di vivere, è soprattutto quello delle nozze di Cana, l’acqua che si trasforma in vino, è il vino dell’ultima cena, il sangue di Cristo. Il vino è preghiera sacra e profana al Dio di tutte le cose e di tutti gli uomini e si sposa bene con la pace.
Sognando, con il Vino della pace versato in un bicchiere, e guardando quante bandiere della pace sventolino sotto i balconi e le finestre di ricchi e poveri, anziani e giovani, ci viene da pensare che questa parola “pace”, un po’ abusata ultimamente, vada de-istituzionalizzata, quasi de-sacralizzata. La pace è dei puri di cuori e degli allegri di spirito (in vino veritas, appunto), è di chi sale sul Monte della Beatitudini e offre in dono l’ultimo sorso, l’ultimo sorriso. Intanto ho scoperto che all’Abbazia delle Tre Fontane a Roma (ma non avevo dubbi, visto le note usanze secolari dei monaci), nel piccolo negozio che vende piante officinali, creme, cioccolato, tinture e liquori alle erbe, c’è il Vino della Pace. Ben nascosto, ma c’è. Lo staranno stappando, in silenzio, tra un Ave e un Pater Noster. E all’ora del vespro, quando i canto del salmo è lieve e la pace trova casa nell’anima, gli otri saranno già mezzi vuoti. Il resto è per noi, invitati a giusta e lieta mensa.

A tavola con Dio, "Il pane della fede"

Un pane della fede che l’intellettuale si spinge a chiamare pane delle lacrime raccontando degli ebrei sefarditi che preparavano il loro pane azzimo nella settimana di Pasqua, quando, alla vigilia dello Shabbat e nei giorni dello Jom Kippur, dal vecchio ghetto si diffondeva un gradito profumo di pane accompagnato da silenziose preghiere. Il pane della nostalgia dei greci scappati dalle loro coste per paura dei Turchi e rifugiatisi nella laguna veneta. Il pane dell’esilio dei monaci armeni: nei giorni di festa cuociono il loro pane bianco, piatto, schiacciato, che in lingua armena è detto hats, oppure il rotondo ciorek, cosparso di sesamo, infarcito di uva secca. Il pane della salvezza di granturco, che sfama i popoli. «Nei pressi dell’Arsenale di Venezia un tempo ci s’imbatteva in una decina di forni e di panetterie che producevano e vendevano il famoso pan biscotto: gallette piatte, rettangolare rotonde, con sale o senza condimenti. Se ne nutrivano i marinai durante i lunghi viaggi. Fra le varie specie dei gallette veneziane ce ne erano alcune speciali che si spezzavano con un semplice buffetto o si rammollivano appena inzuppate, nel frisopo. Si dice che le ricette per impastarle siano originarie del levante e che furono conosciute dai più antichi popoli marinari. I veneziani arrivarono a produrre gallette addirittura migliori delle loro. Migliori anche di quelle, genovesi, marsigliesi o odessite. Le esportavano ovunque arrivavano. Le ho trovate a Spalato, al Pireo, a Valona, ad Alessandria d’Egitto: il pane dei viaggiatori e dei marinai. Sui muri delle case e delle chiese, in luoghi poco esposti, si scoprono nicchie ricoperte di ruggine. Accanto si legge l’iscrizione: pane dei poveri. Ne ho trovata una nella piccola chiesetta di San Samuele, sotto la statua della Madonna. Qui non veniva lasciata solo una crosta di pane, ma si aggiungeva qualche soldino di elemosina. Venezia ha goduto del suo pane di lusso e di fede, ma usava anche il pane della misericordia e della miseria».

Sentieri per lo spirito, In viaggio con l'anima

Per chi ama viaggiare e si diletta in vie nascoste, mulattiere di mare e percorsi di montagna, il viaggio non è solo un cammino, a volte comodo a volte no, verso una meta prefissata, un luogo geografico delineato. Spesso è anche, direbbero i viaggiatori convinti, sogno, possibilità di arrendersi agli improvvisi cambiamenti climatici del vento e dell’acqua così come a quelli dell’animo, utopia racchiusa in un pugno di sabbia e in un mare di stelle, navigazione a vista spesso solitaria. Si arriva in un luogo e si ha subito voglia di guadare un’altra tappa, oppure, e questo lo sa bene chi prepara da tempo un viaggio, si può anche non partire mai, e arrivarci lo stesso in quel luogo. Solo con la fantasia. Perché il vero viaggiatore è colui che viaggia con l’anima, che guarda a ovest con i profumi dell’est, che scende a sud con il naso puntato a nord. Viaggiando, anzi, errando, si incontra l’altro, sempre. Qualche volta anche se stessi, il ché non è male. Ma ciò non basta. Perché l’errante, colui che cammina tante volte senza meta, è alla ricerca di un altrove, un luogo altro, un posto dove l’anima possa ristorarsi, abbeverarsi alle cose belle della vita e anche trovare quella pace e silenzio che i nostri ritmi moderni e tecnocrati hanno allontanato dalla nostra vista. Con il viaggio l’anima non si intenerisce. Semmai apprende esperienza, rumori e colori. È la strada polverosa, la terra che assaporiamo e il cielo che ammiriamo, a indicarci quale blues meticcio stia suonando dentro la nostra anima.

 

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